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La forza del jazz, di questo jazz? Il totale libero estremo dissonante flusso di coscienza. Quel vortice destabilizzante, che isterizza per la assenza d’una amalgama melodica di superficie. È quella musica che non puoi canticchiare sotto la doccia, è quella musica che non ti fa dimenticare la tristezza del giorno, ma che ti ripropone esattamente il mondo circostante, ciò che si fugge. Il senso. La strabiliante e violenta ricerca di un significato, una connessione logica, una giustificazione alla vita e alla sopravvivenza, uno sguardo epoch-ale che prosciuga e condensa in arte la sensazione del mondo. Astratto e stridente, un ensemble di suoni e ritmiche a primo acchito spaiati, free, ognuno con le proprie direzioni e logiche sottostanti, esattamente come le persone che vivono in città e combattono con i propri mostri interiori.

Un affollamento di concetti e visioni del mondo, esperienze dolori fragori e poi sotterfugi sussurri bisbigli. Sogni amori rotture, dolori e paure delicate, associate, dimenticate, doveri e colori, aghi e pennelli. Complesso come una rete comproprietaria di una multinazionale e ineffabile come una vera opera d’arte. Non c’è niente da capire. C’è solo il flusso, una corrente da cui lasciarsi trapassare per esperire la variegata tavolozza delle emozioni umane.

La tecnica non mi interessa né la conosco, profana come sono della musica solfeggiata e suonata eccezion fatta per il plurinsultato e plasticoso flauto dolce negli anni delle elementari e medie inferiori. Dico che la tecnica non mi interessa poiché se la razionalizzazione deve pervenire per l’ascoltatore, dev’essere in un momento quinto dell’ascolto. Quinto? Mi spiego.

Part.1 Acknowledgement.

Presa di coscienza dell’ascolto. Perdita del contorno corporale e immersione nello stream of in-consciousness della musica. Vietato ogni pensiero, scompare l’ego e si diventa una matrice di sensazioni e sentimenti contrastanti. Seguire il flusso, lasciarsi trasportare dalla presa di coscienza del musicista che vuole comunicare il suo sentire.

Part.2 Resolution.

Trovare il centro. In mezzo a tutto questo “frastuono” matematicamente dipinto, vellutato e strdente come solo il sax di Coltrane sa essere, in mezzo a questo vortice drammaticamente masturbatorio emerge un fatto. L’occhio del ciclone, il punto fisso, la postazione privilegiata d’osservazione. Quel punto in cui non c’è movimento, il centro di ogni interpretazione sensitiva e intellettuale. L’io-es-ego, la volontà, l’oppio dei popoli capitalisti. La vera dipendenza.

Part.3 Pursuance.

Quando ritrovi il centro dopo aver superato quel labirintico sensazionificio, rientri nel contorno di carne e pensiero, un’epifania di te stesso, oltre ogni dolore oltre ogni sovrastruttura. Non certo le note che hai appena ascoltato, esse sono il dono gratuito di un genio, una necessità espressiva degli uomini che sono se stessi solo in fusione con uno strumento. Cosa vuoi razionalizzare? Le scelte stilistiche? I controtempi, le chiavi, le aperture delle once? Vuoi sapere se ha ascoltato sonorizzazioni di frattali mentre attraversava l’america nascosto su un treno insieme a bestie dirette al macello e giovani hipster supertramp che rivendicano l’asessualità sapioevoluzionistica rettiliana con lo scappella mento a destra?

No, pensa a te stesso, al tuo contorno, al tuo carattere, a cosa ti fa saltare dormire evocare vomitare innamorare eccitare… perché è così essenziale tecnicizzare l’arte o didascalizzarla? Perché svilire l’ultima magia che ci resta?

Part.4 Psalm.

Ode al centro di gravità permanente e al musicista che ti ha permesso di ritrovarlo. E prega di poter trovare un altro fraseggio, un altro frastuono, delle alte onde, altra arte che non soltanto stimolino l’istinto, ma che ti stimolino a cercare il centro nel vortice di tutti i giorni. Perché è ciò che ti salverà e ti terrà sulla rotta giusta.

Momento Quinto.

Ho ascoltato questo disco (e scritto questo imbarazzante pezzo) senza aver letto nulla della biografia del sassofonista. Ora so che John Coltrane scrive questo disco come ringraziamento a dio, un dio polifonico e agnostico,  per essere uscito da una lacerante dipendenza dell’eroina. Il disco infatti è strutturato come un percorso di presa di coscienza, una via Crucis verso la purificazione del corpo e della mente. È un disco struggente e di una potenza fuori dal comune. Se lo ascolti, lo senti. E i quasi 33 minuti dell’opera dilatano il tempo e la percezione del viaggio interiore chiamato vita.

Apre le porte al jazz d’avanguardia, scomodo irruento ispirato e stridente. Un disco che influenzò tutti, dai jazzisti ai rocker. Libertà espressiva sopra le convenzioni, un ruggito in un’epoca libera. La vita, le sperimentazioni di Coltrane e soprattutto questo capolavoro che è A Love Supreme sono la controparte jazzistica dello streben ottocentesco, percorso idealistico verso la verità e l’essenza della vita, un pellegrinaggio per uscire dalle catene del fenomeno e scoprire l’idea che è forma-formante, scoprire la purezza del concetto libero. Avanguardia filosofica attraverso note libere.

Coltrane morirà due anni dopo la pubblicazione di questo masterpiece, perché dal fenomeno non può sdebitarsi nessun umano.

[John Coltrane – A Love Supreme] 1965

John Coltrane – bandleader, liner notes, vocals, tenor saxophone

Jimmy Garrison – double bass

Elvin Jones – drums, gong, timpani

McCoy Tyner – piano

Link utili.

Wiki

https://it.wikipedia.org/wiki/John_Coltrane

 

In Inglese:

https://www.allmusic.com/artist/john-coltrane-mn0000175553

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