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Ho una vita da vivere. Non rispondo!

Per salvaguardare la mia salute mentale, mi impongo di non guardare il telefono per il resto del pomeriggio. Stacco tutto, mi sdraio a piedi nudi nel prato di fronte a casa mia (un po’ per caso, un po’ per scelta, ho la fortuna di vivere in un posto bellissimo, a una distanza ragionevole dal centro abitato) e in questa magnifica giornata che annuncia l’arrivo della primavera mi godo il sole, la voce del vento tra gli alberi, i colori dei primi fiori sbocciati, la leggiadria della farfalle, il canto degli uccellini nascosti tra i rami. Ne ho bisogno. Ho bisogno di sentire il contatto con la terra, di farne parte. E ho bisogno di ascoltarmi.

Facendo un calcolo approssimativo e tenendo conto del solo Whatsapp, ricevo ogni giorno almeno un centinaio di messaggi, vocali e non.

Il gruppo della palestra, il gruppo del corso di lingua straniera, il gruppo del pranzo del venerdì, il gruppo dei compagni del liceo, il gruppo dei volontari dell’associazione di cui faccio parte, il gruppo di una delle liste civiche della mia città, il gruppo di famiglia, i vari gruppi di lavoro o di progetto e altri gruppi che al momento non ricordo.

E poi le conversazioni private con la mamma, la zia, la sorella che si è trasferita all’estero, i colleghi, gli amici disseminati in varie parti del globo, e quelli che abitano nel raggio di qualche Km o di poche centinaia di metri – la stragrande maggioranza dei quali dotata di un’auto, una bicicletta o altri mezzi di locomozione (comprese le care vecchie gambe) – con i quali l’organizzazione di un pranzo o di un aperitivo richiede lunghi tempi di gestazione e uno scambio di messaggi che, nella migliore delle ipotesi, si ferma a un numero complessivo di 10.

A questi si aggiungono poi le chiamate – private, di lavoro e le promozione di gas, energia elettrica e servizi di telefonia  – i messaggi su Messenger, le notifiche di Facebook e Instagram, la posta elettronica e, se ci scappa, anche un’occhiata al profilo di Linkedin che deve essere costantemente aggiornato.

A ben pensarci, il numero complessivo di messaggi e, in generale, di singole interazioni virtuali, potrebbe tranquillamente superare la cifra giornaliera di 100…

Ce ne rendiamo conto?

Stiamo diventando pazzi! Ci perseguitiamo a vicenda, ci stressiamo da soli, abbiamo la mania del controllo, l’incapacità di stare da soli e di gestire la noia, automi disorientati – o, addirittura, disperati – se il cellulare non prende.

Se, seguendo le regole della buona educazione, dovessi rispondere a tutti i messaggi e alle chiamate che ricevo quotidianamente non avrei più il tempo di sfamarmi, dissetarmi, andare in bagno, lavarmi, vestirmi, lavorare, leggere il giornale, dormire, espletare le mie svariate necessità.

Stiamo davvero superando il limite del buon senso e della ragionevolezza. Anzi, direi che lo abbiamo oltrepassato alla grande.

Siamo arrivati al punto di non poter essere irraggiungibili, senza essere creduti morti.

Se hai il cellulare spento o che non prende, se non rispondi per due volte di seguito, devi per forza essere stato rapito, oppure disperso, svenuto, incapace di intendere e di volere, incappato in una situazione estremamente pericolosa e, se il silenzio persiste, non c’è altra spiegazione che la morte.

Tutto questo è pazzesco!

E’ così difficile comprendere o rispettare la sacrosanta libertà di essere irraggiungibili, talvolta?

E’ davvero così difficile concepire di poter trascorrere una giornata (e dico, una giornata!) senza il cellulare a portata di mano?

E pensare che tutti abbiamo una vita da vivere. Tutti. Esattamente come me che a volte, e sempre più spesso, vorrei fingermi morta.

 

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