Berlino 2019.
Sono passati 30 anni dalla caduta del muro che per 28 anni, fino alla fatidica data del 9 novembre 1989, ha diviso la città in due: due diverse zone d’influenza separate da una barriera di calcestruzzo alta 3 metri e mezzo e lunga più di 100 Km che impediva alle persone di spostarsi liberamente da una parte all’altra della stessa città. Da un giorno all’altro la follia di un governo si è brutalmente manifestata in un vero e proprio delirio: la mattina del 13 agosto 1961 i berlinesi, dando inizio a una nuova giornata, ci hanno messo un po’ di tempo – me li immagino inizialmente increduli, in dubbio se essere svegli o stare ancora dormendo – per prendere coscienza del fatto che un muro era stato fatto erigere nel cuore della notte. L’inizio di un blocco che sarebbe durato quasi 3 decenni. Posso solo immaginare la sensazione provata in quegli interminabili minuti in cui molte persone hanno dovuto realizzare di essere fisicamente separate dalla propria famiglia, a tempo indeterminato. Genitori, fratelli e sorelle, figli e nipoti, mariti e mogli, bambini che devono ancora nascere.
Camminando lungo il Memoriale del muro in un’innocua domenica d’aprile posso ancora sentire, nel silenzio, quello che resta di quella prolungata disperazione. Il muro è triste e grigio, là dove non è ricoperto da murales più rabbiosi che colorati, e si staglia sul verde dell’erba e su un cielo che da qui sembra un po’ meno azzurro. In alcuni punti, delle croci grigio-bianche ricordano che proprio lì sono morti uomini o donne in un estremo e disperato tentativo di fuga vero l’Ovest.
Alcune fotografie in bianco e nero immortalano momenti che rimarranno per sempre sospesi nella memoria collettiva. Una coppia di fratelli o sorelle in braccio a due donne, due neonati che non potranno più vedersi e crescere insieme, che si salutano tendendo più che possono le loro piccole mani verso il filo spinato che li separa. La fuga del soldato Conrad Schumann, allora diciannovenne, guardia di frontiera della Germania Est che il 15 agosto 1961, durante la costruzione del Muro, fu il primo che riuscì a fuggire dal settore sovietico saltando il filo spinato.
E’ incredibile pensare che tutto questo sia successo non molto tempo fa nel cuore geografico e culturale dell’Europa, già irrimediabilmente segnato da profonde ferite che ancora oggi faticano a rimarginarsi tra l’insensibilità generale nei confronti di una Storia che non apprendiamo mai.
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
LA STORIA – Eugenio Montale – 1971