Alto Piemonte, sette di sera dell’anniversario del golpe cileno.
Annaffio l’orto mentre la luce comincia a farsi stanca e l’aria perde calore.
Osservo. E valuto. È stata una buona annata per le melanzane (maturate prima che altrove) e i pomodorini. Quelli piccoli, non gli impegnativi e pregiati cuore di bue, che spesso hanno iniziato a guastarsi prima ancora di arrossire. I peperoni gialli e verdi hanno dato poche soddisfazioni, ma hanno saputo difendersi bene, e anche ora, con la fine dell’estate, continuano instancabilmente a darsi da fare, promettendo almeno ancora un mesetto insieme. Discorso diverso per i peperoncini piccanti (jalapeño, calabrese e un piccolo habanero); hanno nascosto le loro virtù sino a pochi giorni addietro, ora esplodono nel loro rosso sensuale.
Bene le fragole, costanti nel consegnarci poche gemme per volta, come a dirci “non abbiate fretta, passeggiate con noi”. Meno interessanti le zucchine; prepotenti hanno cercato di dare il massimo all’inizio, per poi perdersi fra foglie e rami destinati a seccarsi precocemente.
Il cavolo nero, forse per la prossimità territoriale con le zucchine, ha fatto lo stesso, mentre il cavolo cinese si è immolato ai parassiti ancora prima di mostrare la piena croccantezza delle sue foglie. Bietole e lattuga niente male, hanno fatto il loro dovere poi, esausti, hanno lasciato il passo a chi verrà dopo di loro.
Male i ravanelli, ma a loro discolpa va detto che si sono ritrovati troppo ravvicinati ed hanno avuto poco spazio per svilupparsi. Mentre molto male le carote; hanno cercato strada sotto terra, e con insistenza. ma si sono ritrovate a sviluppare troppe radici sterili, a volte abbracciandosi l’una all’altra in un disperato tentativo di resistenza, o di esistenza. Le poche giunteci in mano mostrano la fatica, lo Streben[1] a cui si sono dedicate. Piccole, ma gonfie, polirizomiche, concatenate le une alle altre. Le peliamo e mangiamo più per riconoscenza che per gusto, perché mantengono un sapore acerbo, quell’idea di qualcosa che mai si è sviluppata sino in fondo. Meritano una menzione speciale cetrioli e zucche. I primi sono esplosi, abbarbicandosi sulla rosa al piano di sopra e invadendo lo spazio dedicato alle erbe aromatiche, e tuttora mostrano i muscoli; la seconda ha iniziato a marciare, allungandosi, saggiando il terreno alla ricerca del luogo idoneo dove piantare nuove, provvisorie radici. Ed ora, quasi due mesi prima del raccolto ufficiale, già regala primizie di ottima qualità. È scesa nel giardino dei vicini, territorio straniero, e lì ha continuato a viaggiare, verso dove non ci ancora dato sapere.
Io annaffio. E osservo. E valuto. Così è trascorsa l’estate. Quarantasei anni fa uno dei migliori esperimenti di socialdemocrazia dell’America Latina veniva spazzato violentemente via da Kissinger e accoliti; diciotto anni fa un’altra tragedia prendeva possesso di questa data, soppiantandola definitivamente. L’egemonia culturale è anche questo: più sei forte, più i tuoi drammi sono importanti. E intanto noi siamo qui, a osservare un orto. E a creare una metafora. È una terra poco ospitale, la nostra, per chi deve scavare in profondità. Non si riesce a spingere in basso le radici, e se o si fa, lo si fa male, ci si aggroviglia su sé stessi. Molto meglio camminare, non avere paura, spostarsi. Anche chi pensa di fiorire nella propria bellezza sa che c’è un rischio, i parassiti sono lì. E ti divorano. Ti divorano ancora prima che il tuo splendore raggiunga l’acme. Solo sopravvive chi osa muoversi, chi cerca il suo terreno. Chi assaggia ma è anche in grado di rifiutare, aspettando il momento migliore per sbocciare. oppure chi è abbastanza forte per conservare sino alla fine la propria carta vincente. Chi la coltiva e custodisce senza esitazioni.
Una terra nella quale non si può scavare, a pena di trovarsi metafora di sé stessi, tautologia. Una terra in cui la vita è altrove.
[1] Streben: verbo tedesco che si potrebbe tradurre come: raggiungere la vetta, sforzarsi, dare il massimo. Spesso usato in modo aggettivizzato come: sforzo massimo, estremo tentativo.