Il medium è esso stesso il messaggio o almeno mi si conceda di dire che è parte integrante e operativa del messaggio stesso. Chi ama l’arte o la pratica, sa bene quanto l’immagine sia potente nel veicolare un concetto anche nelle più piccole sue parti come l’uso di uno specifico colore, di un materiale o persino di una tecnica.
La Lega Serie A, per contrastare l’intensificarsi delle manifestazioni razziste delle tifoserie negli stadi contro i giocatori di colore, ha deciso di fare una campagna mediatica anti-razzismo e ha incaricato un artista milanese di realizzarla.
Questo artista è Simone Fugazzotto. Dipinge primati. Scimmie. Già il fatto suscita ironia, e un poco di sgomento, visto che gli insulti più diffusi vero le persone di colore sono proprio i riferimenti alle scimmie.
La campagna si costituisce di tre dipinti di scimmie – Noi uomini siamo tutti primati. Fin qui tutto bene.
La prima ha gli occhi azzurri – Primate di razza caucasica primomondista?!
La seconda ha gli occhi marroni – Primate di razza dell’indifferenziato restodelmondo?!
la terza ha gli “occhi a mandorla” – Primate di razza asiatica?!
I visi di queste scimmie sono decorati da una particolare greca colorata – No, non si capisce che sono i pentagoni del pallone da calcio. Per ogni primate il colore del decoro è diverso, il che sta giustamente a sottolineare la razza/tribù di appartenenza.
In che modo l’immagine delle tre scimmie di Fugazzotto permette di depotenziare lo stereotipo razzista-colonialista delle persone di colore? In nessun modo.
«Ma non siamo noi tutti scimmie nude?» avranno magari pensato in tanti canticchiandosi la canzone che vinse il festival di Sanremo qualche anno fa, scomodando un Desmond Morris che poveretto tutto si aspettava tranne la citazione in una canzone di dubbio gusto. Quindi, dato che lo stereotipo è il prodotto della cultura colonialista bianca, se l’artista avesse ritratto tre primati nudi rosei e privi di greche tribali, l’immagine sarebbe stata efficace? No.
Usare immagini di primati per contrastare il razzismo è come usare l’immagine di una donna che pratica bondage come campagna contro la violenza sulle donne.
Non c’è ironia. E se ci fosse, avrebbe la stessa forza educativa dei cinepattoni con Boldi e De Sica o dei film di Checco Zalone. C’è black humor (sic!) o cinismo? No, nonostante entrambi possano essere un modo sofisticato e forte di sottolineare un comportamento umano, non spingono davvero a riflettere sulla negatività del comportamento denunciato né ad agire attivamente per disgregare lo stereotipo. Il risultato è anzi l’opposto: si rinforza l’immaginario dello stereotipo perché viene assunto nella categoria dei “fatti”, come fosse cristallizzato nei geni, patrimonio dell’umanità impossibile da estirpare. Quindi ciò che resta da fare è abbracciare la nostra bassezza come specie e farci una risata.
Il razzismo però è un prodotto culturale europeo, credenza propagandistica nata nel periodo colonialista e basata su una falsa lettura scientifica delle differenze fenotipiche degli uomini. Il razzismo fa parte dell’ideologia del suprematismo, è una credenza sbagliata e antisociale, una scorciatoia culturale, una visione superficiale ed élitaria del mondo che deve essere contrastata con istruzione e educazione, isolando chi crea differenze.
In Italia però chi crea le differenze urla e semplifica, ha sempre un gran seguito e usa l’ironia come nascondiglio: “Ci facciamo solo quattro risate, che c’è di male?”