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Appunti ambientalisti ai tempi del coronavirus – Parte 1)

I cieli sopra la Cina e la Pianura Padana, le acque pulite e i pesci dei canali di Venezia, i delfini lungo le banchine di Cagliari, le scimmie nelle piazze delle città thailandesi. Siamo tutti più o meno familiari con queste immagini che si sono diffuse su Internet nelle ultime settimane e che sembrano dirci che il clima e la natura, ai tempi del coronavirus, non se la passano affatto male. Tutt’altro, si potrebbe pensare. Pare, infatti, che quando l’uomo si ritrae entro le mura domestiche e limita sostanzialmente le proprie attività quotidiane – come sta succedendo oggi – la natura non fa altro che rinvigorirsi e riconquistare i propri spazi. Queste immagini potrebbero essere scambiate per una cosa da nulla, post innocui che si perdono nella baraonda che sono i social network in questi giorni. E magari, nel tentativo di trovare un qualche senso di ottimismo in questi tempi difficili, potrebbero portarci a dire che, quantomeno, il coronavirus sia un bene per l’ambiente e per il clima.

Questo tipo di narrazione, tuttavia, non solo sembra essere scorretta da un punto di vista prettamente scientifico, ma contiene un messaggio politico implicito che potrebbe addirittura danneggiare quella lotta ambientalista che si batte per un futuro giusto e sostenibile. Dopotutto, come ci ricorda il sociologo svizzero Razmig Keucheyan, “la natura è un campo di battaglia”. Non solo: la natura è il campo di battaglia di questo secolo e della nostra società e, in quanto tale, non dovrebbe prestarsi ad interpretazioni semplicistiche e che si tingono di “neutralità”. Con questo spirito, quindi, può essere utile analizzare le immagini che in questi giorni vediamo sugli schermi dei nostri computer per capire di che tipo di ambientalismo si avrà bisogno domani.

Il coronavirus è un bene per il clima?

Il 19 Febbraio di quest’anno, quando il coronavirus tempestava in Cina, Carbon Brief ha rilasciato uno studio a firma dell’analista Lauri Myllyvirta del Centre for Research on Energy and Clean Air. In questo studio si notava che le misure cinesi contro la diffusione del virus avevano portato a una riduzione della produzione di numerosi settori industriali. La domanda energetica – ed in modo particolare quella del carbone che ancora rappresenta una delle principali fonti energetiche del Paese – era scesa di circa il 35% rispetto allo stesso arco temporale negli anni precedenti. Lauri Myllyvirta ha quindi mostrato attraverso immagini NASA e ESA (European Space Agency) che questo sconvolgimento nei processi produttivi ha ridotto le emissioni di CO2 e NO2 in diverse aree del paese. E neppure di poco: basti pensare che, nella sola Cina, si stima una riduzione di 100 tonnellate di CO2, pari circa al 6% delle emissioni globali nello stesso periodo di Febbraio. Con dinamiche molto simili, si sono diffuse immagini satellitari ESA che hanno mostrato livelli straordinariamente bassi di NO2 e CO2 in Italia. Lo stesso, si può immaginare, avverrà per tutti quei paesi che stanno adottando misure più o meno restrittive contro il coronavirus. Inoltre, numerose compagnie aeree stanno cancellando voli, liberando i cieli di quasi tutta Europa dalle emissioni di una delle industrie più inquinanti al mondo.

Il salto da questi dati ad affermazioni del tipo: “il coronavirus fa bene al clima” è molto breve.

Nonostante ciò, Lauri Myllyvirta avverte che il taglio delle emissioni inquinanti della Cina, nel lungo termine, avrà degli effetti minimi – per non dire irrisori. Si stima che la riduzione delle emissioni cinesi nel periodo coronavirus corrisponderà ad una riduzione delle emissioni globali, nell’intero 2020, del solo 1%. Cifra irrisoria, per l’appunto, se paragonata alle riduzioni richieste dall’IPCC per rimanere al di sotto del famigerato +1.5°C. Per comprendere questo dato basta considerare che tutte le economie colpite dal coronavirus, una volta che questa crisi sarà terminata, cercheranno in ogni modo di massimizzare la produzione industriale per compensare le ingenti perdite economiche. Si cercherà di ripristinare in fretta e furia i livelli consueti di crescita economica e, in questa corsa frenetica, ci si potrebbe dimenticare di quelle altre due crisi che stanno avvelenando il mondo e che possono causare, nel lungo termine, molta più morte e distruzione di questa pandemia: la crisi climatica ed ecologica. L’ambiente, nel tentativo di salvare la capacità produttiva dei nostri paesi, potrebbe dunque passare in secondo piano nei prossimi mesi e questa non è affatto una buona notizia per il nostro pianeta.

Questo non è un copione nuovo, racconta l’attivista e scrittrice Naomi Klein in un video pubblicato recentemente sul sito del “The Intercept”. Nel suo celebre libro “The Shock Doctrine. The Rise of Disaster Capitalism”, Klein racconta che eventi distruttivi – shock – come una guerra, un colpo di stato, un disastro naturale o, per l’appunto, una pandemia, possono essere utilizzati per sospendere le regole democratiche e favorire massicci interventi a sostegno di quei settori dell’economia – probabilmente inquinanti – che “sono troppo grandi per fallire”. Benché gli studi di Naomi Klein siano principalmente basati sull’esperienza statunitense, molti analisti ambientali ed energetici in tutto il mondo si stanno interrogando su cosa avverrà tra qualche mese, quando la vita di molti di noi tornerà alla propria normalità e l’economia dovrà riprendersi. L’agenza Internazionale dell’Energia (IEA), ad esempio, si auspica che le energie rinnovabili saranno protagoniste nella ripresa economica post-COVID 19 e avverte che “non dovremo lasciare che la crisi attuale comprometta i nostri sforzi” nei confronti delle sfide climatiche e ambientali. Se così sarà, lo si vedrà a breve. Per intanto, però, ci è dato di guardarci indietro ed osservare cosa è successo nel passato a fronte di shock globali che, come accade oggi, hanno rallentato l’economia globale.

Un grafico pubblicato dal “Global Carbon Project” mostra che diversi shock globali – come la crisi energetica del 1973 e il crash finanziario del 2008 – hanno sì portato ad una riduzione delle emissioni, ma solo nel breve termine. Quando infatti si analizza la storia globale delle emissioni di CO2, non si può che constatare che il “rebound effect” ha sempre favorito la ripresa delle emissioni inquinanti.

Di fronte a questo tipo di dati, pensare all’ambientalismo ai tempi del coronavirus assume un valore critico. Ci spinge infatti a domandarci in che modo l’attuale emergenza colpirà la capacità e volontà delle istituzioni nazionali ed internazionali di affrontare le altre crisi del nostro secolo. Questo tipo di domande, che guardano al futuro, possono sembrare difficili in una situazione di incertezza come quella che stiamo vivendo oggi. Tuttavia, sono più che fondate, come dimostra il recente articolo pubblicato sull’MIT Technology Review dove sono elencati diversi modi in cui il rallentamento economico causato dal coronavirus potrebbe sfavorire la transizione verso le rinnovabili: la mancanza di fondi per investimenti in energie verdi, un calo dell’attenzione pubblica verso le questioni ambientali e climatiche e via dicendo. A fronte di quello che sarà un riordino delle priorità dei nostri governi, vale la pena chiedersi che ne sarà delle promesse fatte sulla transizione energetica e sul “Green New Deal”. Saranno al centro della nostra ripresa economica oppure verranno scartate in quanto investimenti troppo poco sicuri? Queste domande non sono affatto scontate ma, dice Naomi Klein, tanto meno lo sono le risposte. In momenti di crisi “è possibile catalizzare una sorta di salto evolutivo. Pensiamo al 1930, quando dalla Grande Depressione è nato il New Deal. Negli Stati Uniti ed in altri paesi, il governo ha creato una rete di sicurezza sociale in modo tale che, in caso di necessità, i cittadini avrebbero potuto usufruire di programmi di welfare e di sostegno sociale”. Le crisi, di qualsiasi tipo esse siano, sono momenti volatili ed è possibile riorganizzare la società in modi che, fino al giorno prima, erano considerati troppo radicali o addirittura impossibili. Naomi Klein, citando uno dei padri del capitalismo contemporaneo, Milton Friedman, ricorda che “solo una crisi – che sia reale o percepita come tale – può produrre un cambiamento. Nei momenti di crisi, le azioni compiute dipendono dalle idee disponibili attorno a noi”. È dunque possibile pensare a un post-COVID19 in cui le emissioni inquinanti e i disastri ecologici non continuino indisturbati ma, piuttosto, vengano limitati e bloccati? Si tratta di pensare a questi momenti come momenti di creazione e non di immobilità e di andare a rispolverare alcune di quelle idee che sono già presenti all’interno dei dibattiti della società.

1 thought on “Appunti ambientalisti ai tempi del coronavirus – Parte 1)

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