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Dalla Turchia all’Europa: la storia di Turgay Ulu

Ho conosciuto Turgay Ulu in un tardo pomeriggio d’aprile.

Eravamo a Berlino per una breve vacanza e siamo capitati nei pressi di Tempelhof, un vecchio aeroporto diventato uno dei parchi più grandi della città. Era l’ora del tramonto e contro un cielo rosso pompelmo si scagliavano le sinuose figure di ciclisti, pattinatori e skaters, come piccoli aerei a creare scie immaginarie lungo la vecchia pista di decollo e atterraggio.

Siamo rimasti in silenzio a goderci lo spettacolo di quest’angolo di città “povera ma sexy” – come è stata definita – camminando in direzione del quartiere di Neukölln, dove pensavamo di trovare una vecchia amica turca che qualche anno prima aveva aperto un locale, il Mandolin Cafè. Al suo posto, però, abbiamo trovato un altro locale, il Karanfil, in italiano “garofano rosso”. Abbiamo comunque deciso di entrarci, attratti da un’atmosfera che sembrava promettente fin dall’ingresso. Non un locale appariscente, di quelli che possono risultare aggressivi prima ancora di entrarci. Un locale piccolo e discreto, ma con una forte personalità: luci soffuse, tappeti dal sapore mediorientale alle pareti, un piccolo vaso di fiori appoggiato sul tavolo, qualche candela accesa e, in un angolo, un cappello verde militare su cui spicca una stella rossa.

Ad accoglierci c’è un uomo abbastanza alto, magro, capelli corti, un po’ di barba a coprirgli il mento e le guance, sotto gli occhiali uno sguardo attento e penetrante, un po’ diffidente, con cui cerca di studiarci pur apparendo riservato. È una persona di poche parole e, dopo averci servito da bere, ritorna a fare quello che stava facendo prima che entrassimo. Riprende il saz, lo strumento a corde della tradizione turca, che aveva appoggiato con cura su una sedia, e ricomincia a suonare.

È una musica ipnotica, dai suoni gravi e noi ci lasciamo trasportare da melodie che richiamano terre lontane. Penso che quest’uomo deve avere un legame molto stretto con quello strumento che pare un prolungamento delle sue mani, le corde pizzicate vibrano al posto delle sue corde vocali. Lo ascoltiamo suonare e nel frattempo ci guardiamo intorno, concedendo ai dettagli che ci circondano il giusto tempo per essere goduti.

A un certo punto la mia attenzione cade su una pila di riviste. Riviste che parlano di attivismo politico, di giustizia sociale, di diritti umani fondamentali. Tra queste ne scelgo una e tra le prime pagine scorgo la foto di quell’uomo taciturno che ora sta suonando di fronte a noi.

Da come apprendo leggendo la rivista, si chiama Turgay Ulu ed è un rifugiato politico, un giornalista curdo che nel suo Paese ha trascorso 15 anni in prigione con l’accusa di appartenere a due organizzazione armate comuniste.

In una pausa tra una canzone e l’altra, azzardo una domanda: “Sei tu?” gli chiedo. E lui me lo conferma, indicandomi altro materiale per approfondire la questione. Fotografie di lui e di altri rifugiati che a Berlino hanno trascorso i primi tempi all’interno di tende, sotto il sole, la pioggia e la neve. Immagini di marce di protesta lungo le strade europee per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui diritti dei migranti richiedenti asilo in Europa, troppo spesso negati. Quello stesso diritto d’asilo che la Germani ha negato anche a Turgayy Ulu considerandolo, al pari dei suoi carcerieri turchi, un terrorista; allo stesso tempo, però, la Germania non può rimpatriarlo perché sa che sarebbe riportato in carcere e torturato. Una situazione che solleva non poche perplessità…

Quella stessa sera abbiamo trascorso del tempo insieme, suonando e cantando con Turgay e altri ragazzi, bevendo il raki, lanciandoci in una internazionalissima “Bella Ciao”, lasciandoci trasportare dalla musica e dalle sue vibrazioni in una stanza che per quei frequentatori abituali sembrava essere casa.

Non ho mai dimenticato quell’uomo silenzioso dagli occhi penetranti e mi sono sempre ripromessa di scrivere qualcosa su di lui, di prendermi del tempo per approfondire la sua storia che merita di essere raccontata, in quante più lingue possibili.

Ho trovato le prime informazioni in un report di Amnesty International risalente al 2006 (quando ancora Turgay si trovava in prigione) e contenente informazioni sulla vergognosa condizione delle carceri in Turchia e sulle torture inflitte ai prigionieri, anche minori. Tra i vari casi riportati c’è quello di Turgay Ulu, incarcerato nel 1996, a soli 23 anni, con l’accusa di aver attentato in maniera violenta all’ordine costituito. Come già accennato, l’accusa fa riferimento alla sua militanza attiva nel MLKP (Partito Comunista Marxista-Leninista), un’organizzazione armata costituita nel 1994, e al supporto a un’altra organizzazione armata, la TIKB (Unione Rivoluzionaria Comunista della Turchia), con l’accusa di aver partecipato nel 1995 al tentativo di liberazione di uno dei suoi presunti membri che ai tempi era sotto custodia da parte della polizia. Pur ammettendo di essere un attivista marxista in Turchia, Turgay ha sempre negato le accuse contro di lui, anche sotto tortura. La stessa Amnesty International ritiene “altamente improbabili” le accuse.

Come riportato in un articolo del 2017 sul suo blog, “Sono stato torturato con l’elettroschock”, ha ammesso, ma non ha mai parlato. Questo, per la polizia turca, è stata la prova evidente del fatto che fosse un terrorista.

L’accusa di appartenere al MLKP si è tradotta in una sentenza di condanna a 45 mesi di carcere (quasi 4 anni). Per la seconda accusa, invece, nel corso di diverse udienze sono stati sentiti alcuni testimoni, tra cui 2 poliziotti che avrebbero identificato Turgay come uno dei membri appartenenti al TIKB e di altre 2 persone interrogate sotto tortura che avrebbero fatto il nome di un militante chiamato “Ulaş” che i poliziotti hanno immediatamente associato a Turgay Ulu, pur in mancanza di prove. Un terzo poliziotto, un gendarme che avrebbe potuto testimoniare a suo favore, non è mai stato convocato in tribunale pur essendo facilmente raggiungibile. È stato quindi dichiarato colpevole e nel 2002 è stata emessa nei suoi confronti una condanna a morte, poi convertita in ergastolo per buona condotta.

Nel frattempo il suo avvocato difensore ha fatto appello alla Corte Europea per i Diritti Umani denunciando la lentezza delle procedure.

Turgay Ulu è stato rilasciato nel 2011 ed è subito venuto in Europa. 22 giorni dopo il suo rilascio, le autorità turche hanno emesso una nuova sentenza: se torna in Turchia, finisce di nuovo in prigione.

Quando gli è stato chiesto come ha fatto a resistere in quegli interminabili 15 anni di prigionia, ha risposto così: “Ho mantenuto la mia sanità mentale leggendo gli scritti dei prigionieri politici americani. Ho cercato di darmi una disciplina in prigione per non impazzire: ho letto e scritto libri. Ho cercato di mantenere un equilibrio, nello stesso modo in cui lo ha fatto Mumia (Mumia Abu-Jamal).

Oggi Turgay è un attivista di spicco in Germania nel movimento per i diritti dei rifugiati e oltre a scrivere sul suo blog personale (www.turgayulu.wordpress.com), collabora con alcune riviste, tra cui il Daily Resistance.

La sua storia è una delle tante, purtroppo, da cui emerge un’immagine inquietante di quello che succede in Turchia, del suo sistema giudiziario, della tortura ancora praticata anche se proibita dalla stessa legge turca.

Resistere ogni giorno è un impegno, un dovere per i prigionieri e gli ex detenuti come Turgay, ma deve rappresentare una sfida anche per noi, accogliendo l’invito che in altri tempi ci è stato rivolto da Ernesto Che Guevara: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo.”

Perché la giustizia non può avere alcun valore se non è espressa e difesa a livello globale. Ogni giorno.

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