A un anno dal primo lockdown, ecco quello che ci manca. Quello che era normale fino a non molto tempo fa e che nel giro di qualche mese è diventato un ricordo.
Entrare nei musei liberamente, le mostre, il cinema, incontri senza limite di numero, le piazze e i parchi popolati senza il distanziamento, le enormi classi universitarie ricche di studenti, le biblioteche senza la messa in quarantena anche dei libri, le vie come punti di socializzazione, i mercati all’aperto liberi.
Poter non stare dietro ai numeri che siano quelli sull’orologio per stare attenti al coprifuoco, o i numeri delle persone in una stanza, sul treno.
La libertà di poter decidere sul momento dove andare, per dove partire.
Mi mancano gli amici che non posso andare a trovare, lo scambio diretto con i professori.
Mi manca vedere mia sorella andare a scuola, piuttosto che saperla sola di fronte a un computer.
Mi manca andare in una città come Bologna e sentirla libera.
C’è qualcosa di più impercettibile ma costante che mi manca: la spontaneità. Come posso rapportarmi a quella persona? Ha paura di me? Come la saluto? Le siedo vicino? La mia presenza la disturba?
Materialmente non mi manca niente, eppure mi manca tutto.
A livello pratico mi mancano molte cose: i concerti, ballare, fare una nottata in giro a chiacchierare con gli amici, andare a visitare qualche luogo, perdermi per le strade di Milano o di Torino, prendere un treno, il cinema. Ma più di tutto mi manca la possibilità.
La possibilità di un avvenimento, la possibilità di una possibilità. Un’apertura, un cambio repentino di rotta. È tutto molto statico, chiuso, forzosamente solitario e opprimente.
Tutti i locali storici di Milano che in meno di un anno hanno chiuso.
Poter andare in piscina, l’aperitivo dopo le 18.00, abbracciare i miei amici come se fosse normale, il caos di un concerto, poter vedere un bambino in faccia per intero.
Un po’ di leggerezza.