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La memoria è un ingranaggio collettivo

La memoria è un ingranaggio collettivo. Ricordi sparsi per il ventennale del G8 di Genova

Il 20 Luglio di vent’anni fa avevo 11 anni, pochi pensieri per la testa, di cui veramente pochi politici. Ricordo la decisione di mio fratello maggiore, allora diciannovenne, di partecipare al G8 di Genova. Rammento le sensazioni in famiglia di perplessità, determinazione e spavento. Allora non sapevo neanche in cosa consistesse un G8. Quando me lo spiegarono, pensai distintamente:

“Ma come diavolo si permettono 8 persone di decidere per tutti?”

Poi la partenza del fratellone, le raccomandazioni, gli appuntamenti telefonici prefissati (all’epoca non usava ancora molto il cellulare, e mio fratello neppure desiderava averne uno), e la sensazione che stesse per accadere qualcosa di grande, di enorme, ma soprattutto di incomprensibile, per il me undicenne di allora.

Dopodiché, ricordo soltanto Radio Popolare accesa 24 ore su 24, per seguire tutta la vicenda, che politicamente mi sfuggiva completamente; però mi sembrava di star assistendo ad un evento senza precedenti… e di fatto così è stato.

L’unico ricordo che ho ancora veramente impresso, poiché lo sentii direttamente alla radio, fu la morte di Carlo Giuliani: come prima notizia dissero che era stato ucciso un ragazzo pavese di diciotto anni, poi che era spagnolo… e poi molte altre cose. Vidi mia madre sbiancare davanti alla radio, sedersi sul divano aspettando che il telefono squillasse, che in qualche modo mio fratello riuscisse a dare sue notizie, cosa che avvenne circa un giorno dopo.

Del massacro della scuola Diaz, non rammento; venni a scoprirlo l’anno seguente, in occasione del nostro pellegrinaggio a Genova presso la tomba allestita dalle persone più diverse sul selciato, nel punto in cui era stato ammazzato Carlo, in Piazza Alimonda… o meglio, in piazza Carlo Giuliani ragazzo.

© Nero di Seppia

Il 20 Luglio del 2002 avevo 12 anni, molte preoccupazioni in più, di cui molte iniziavano ad essere se non propriamente politiche, direi pre-politiche o para-politiche. Insomma: iniziavo ad affacciarmi al mondo della politica. Fu così che, quando mia madre e mio fratello maggiore decisero di andare a manifestare a Genova per l’anniversario del G8 dell’anno precedente, chiesi fortemente di andare con loro. Per vedere. Per sentire. Per capire.

Il primo ricordo è il terrore provato di fronte alle forze dell’ordine in tenuta antisommossa: a 12 anni, il pensiero che ebbi di fronte a quegli uomini fu “se a questi gli girano i cinque minuti ci massacrano tutti”

Anni dopo capii che quello era la tipica sensazione dell’innocente di fronte a persone armate, che proprio perché armate possono esercitare violenza sui disarmati in qualunque momento; forse non è neanche del tutto colpa loro… o forse sì. Sicuramente la morte di Carlo fu colpa loro. Questo lo pensai quando, vedendo il tappeto di kefieh disposto sopra una appena intravedibile sagoma di cemento leggermente più scuro perché ancora intriso del sangue di Carlo, fui colpito da un pugno nello stomaco: assassini.

Perché è questo che succede quando metti delle forze armate di fronte a delle persone inermi: le persone inermi vengono uccise. Dalle persone armate.

Da quel momento e dopo quella visione, i fatti di Genova sono diventati un pilastro della mia riflessione politica ed esistenziale, un imprescindibile: vero e proprio memento dalle mille facce, di cui la principale era e rimane tutt’ora “diffida sempre delle istituzioni”.

Negli ultimi vent’anni, ho approfondito l’analisi degli accadimenti del G8 di Genova, girando e rigirando tutte le informazioni di cui sono venuto a conoscenza: ho raffinato la mia visione dei fatti, ho complessificato il mio modo di guardare le diverse ricostruzioni, ho irrobustito le mie riflessioni politiche fino al momento attuale, in cui mi ritrovo ad avere 31 anni.

Ma la cosa che a distanza di tutto questo tempo, siderale per la mia giovane età, permane come la più pressante è dare senso alla morte di un ragazzo che esprimeva il suo dissenso nei confronti di un modo di governare il mondo che non io, non pochi patetici stronzi, ma che tutta una gigantesca rete di attivisti rigettava poiché ritenuto ingiusto.

In questi giorni delicati, in cui ho ripercorso con la mente i ricordi personali, ho ascoltato Radio Popolare per sentire le dirette, le vecchie registrazioni, ho guardato le più diverse ricostruzioni che per fortuna ancora riescono a girare attraverso qualche canale istituzionale, mi ritrovo a pormi un quesito angosciante:

perché per la mia generazione il G8 di Genova non è mediamente un momento così determinante come lo è per me?

 E non ne faccio una questione strettamente personale, bensì politico-esistenziale: perché un evento che ha rappresentato uno spartiacque per la storia dell’Italia e del mondo, non sembra radicarsi nelle coscienze di chi, come me, si è ritrovato (forse precocemente) bene o male a contatto con esso? Perché non c’è dubbio che, da qualunque parte la si voglia prendere, quei tre giorni del Luglio 2001 siano stati la distruzione programmata e intenzionale di un movimento anti-globalizzazione che stava diventando dirompente, tanto in Italia quanto nel mondo; e che una simile distruzione è stata perpetrata coi meccanismi della paura, della repressione e dell’omicidio.

Il che ci costringe a prendere il G8 di Genova come punto zero per cominciare a ripensare la politica e i modi per perseguirla al di fuori dei circuiti istituzionali, ovvero come movimenti ingovernabili di moltitudini rabbiose.

Ora che ci penso, il primo documento relativo ai fatti di Genova che ho avuto tra le mani fu il fumetto realizzato 3 anni dopo da Zerocalcare, dal titolo “La nostra storia alla sbarra”, dove la prima frase della prima vignetta era: “La memoria è un ingranaggio. Va lubrificata, mantenuta”. Il che naturalmente non fu una gran rivelazione, ma quando la collegai alla frase di chiusura, provai un brivido che mi percorse tutta la spina dorsale… e che provo ancora tutt’oggi, quando prendo in mano quel fumetto e ripenso al me di vent’anni fa, a quello di diciannove anni fa, al me di adesso e a tutti gli altri che invece non sono me, e che hanno assistito a quegli stessi fatti, e mi ritrovo a domandarmi che insegnamento abbiano tratto da quei giorni infausti… sempre che ne abbiano tratto qualcuno.

Ed è così che mi sembra di poter dire che, ciò che lo Stato italiano ha spezzato portandosi via la vita di Carlo Giuliani e massacrando impunemente i ragazzi della scuola Diaz, forse è proprio la capacità di ricordare insieme.

“La memoria è un ingranaggio collettivo. Per funzionare ha bisogno di tutti noi. Rimetterla in moto significa tornare a Genova. Non lasciare soli i nostri 26 fratelli. È il minimo che dobbiamo alla nostra storia e alle nostre feriteA Carlo, con la stessa rabbia di 3 anni fa.”

Zerocalcare, 2004.

 

Anglerfish

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