Ciao Luis.
Ti chiamo Luis, pur non avendoti mai conosciuto. O almeno, non di persona. Non nego che più di una volta ho seriamente pensato di fare un viaggetto nelle Asturias per venirti a cercare. Avrei voluto guardarti in faccia, guardare quegli occhi che ne hanno davvero viste di tutti i colori e sentire la tua voce, me la sono sempre immaginata profonda, tenera e dura al tempo stesso, così come ho sempre immaginato fosse il tuo cuore.
Ti ho scoperto per caso da ragazzina, nella libreria in salotto ho pescato un libro dalla copertina verde. Incontro d’amore in un paese in guerra. Ho iniziato a leggere e da quel momento, su quel divano, in quel tardo pomeriggio primaverile, è scoccata la scintilla. Sì, è stata una scintilla che ha improvvisamente fatto scattare qualcosa dentro di me. Non posso parlare d’amore, ma nemmeno di semplice stima, sarebbe decisamente riduttivo.
Credo di averti scelto come un padre adottivo, come una guida in un momento in cui ne avevo particolarmente bisogno, per scoprire il mondo attraverso i tuoi occhi di sognatore e trovare il coraggio per affrontarlo nel migliore dei modi. La tua schiettezza disarmante, la tua sincerità, la chiarezza dei tuoi ragionamenti, la semplicità con cui sei riuscito a parlare proprio a tutti, in questi anni mi hanno fatto vibrare il cuore come un tamburo, piangere, incazzarmi, commuovere, sorridere di fronte alle imprese del gatto Zorba, riflettere sulla nostra folle società.
Anche adesso, mentre scrivo, è il tardo pomeriggio di una giornata primaverile, lo stesso giorno in cui ho appreso la notizia della tua scomparsa. Ti ho sempre creduto indistruttibile e sapere che, dopo avere superato gli anni del regime militare, le torture, l’esilio dal Paese che tanto amavi, oggi te ne sei andato per colpa di un invisibile virus che sta mettendo a soqquadro il pianeta, mi fa pensare a quanto strana e imprevedibile sia la vita. Sicuramente bizzarra. Talvolta spietata.
Con queste poche righe ti voglio ringraziare per quello che hai rappresentato per me, per quello che mi hai insegnato, per tutti i tuoi scritti che avrò sempre cura di tenere sulla mia libreria in un angolo molto speciale, ovunque andrò.
Perché scrivo?
Non sono incline a perdermi nei vecchi dubbi che tormentarono e fecero riflettere gli antichi filosofi, né ad avvertirne altri se non quelli necessari ad avanzare sull’unica strada che sento possibile, la strada della scrittura, la barricata a cui sono arrivato quando tutte erano state ormai spazzate via, quando già pensavo che non ci fosse più posto per la resistenza. Da Guimarães Rosa ho imparato che “raccontare è resistere” e su questa barricata della scrittura resisto agli assalti della mediocrità planetaria, la mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio.
Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità, della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per resistere all’impostura, alla frode di un modello sociale in cui non credo, perché non è vero che la cosiddetta “globalizzazione” ci avvicina e finalmente permette a tutti gli abitanti della Terra di conoscersi, intendersi e capirsi.
Condivido in pieno la definizione della nostra epoca che dà José Saramago: uno scontro fra la globalizzazione e i diritti umani, e scrivo per resistere in nome di quei diritti sacri e inalienabili, che non possono essere manovrati, amministrati o mutilati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale.
Scrivo perché credo nella forza militante della parola. Non sono mai stato, né mai sarò, un uomo dalle convinzioni religiose, perché questo lederebbe le mie convinzioni morali, ma del cristianesimo recupero la formidabile affermazione che dice: “In principio era il Verbo”, verità più linguistica che teologica, dove la parola è in sé un atto di fondazione e le cose esistono a forza di essere nominate.
Durante gli anni bui della dittatura in Cile gli uomini della Resistenza cantavano una canzone ispirata a una poesia di Paul Eluard: “Scrivo il tuo nome sui muri della mia città”, e la Libertà esisteva al di là del ricordo immediato, al di là del fervido desiderio di ritrovarla, al di là del dolore provocato dalla certezza di tante morti in suo nome. Esisteva in tutto il suo splendente vigore, perché ogni volta che qualcuno la nominava tornava a inventarla.
Scrivo per amore delle parole che amo e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che, sconfitti in mille battaglie, continuano a preparare i prossimi combattimenti senza paura delle sconfitte.
Scrivo perché amo la mia lingua e in lei riconosco l’unica patria possibile, perché il suo territorio non conosce limiti e il suo palpito è un continuo atto di resistenza.
Scrivo dalla solitaria barricata del creatore di mondi e, con le parole di Osvaldo Soriano, “dalla responsabile soddisfazione di chi sa di essere stato invitato ad abitare nel cuore della gente migliore”.
Luis Sepúlveda – Storie ribelli