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Appunti ambientalisti ai tempi del coronavirus – Parte 2)

Cosa possiamo imparare dal coronavirus?

Nella ricerca di idee e di futuri alternativi, serve una bussola e, benché possa sembrare strano, il coronavirus può aiutare ad orientarci, indicando – e ricordando – alcune lezioni fondamentali. Questa pandemia, infatti, svela, con una tragicità difficile da comprendere, quei problemi strutturali che attanagliano le nostre società e che stanno condannando il nostro pianeta. Come si legge nell’introduzione dell’ultimo report di WWF Italia: “Molte delle cosiddette malattie emergenti – come Ebola, AIDS, SARS, influenza aviaria, influenza suina e oggi il nuovo coronavirus […] non sono eventi catastrofici casuali, ma la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi naturali”. E continua: “Il crescente impatto umano su ecosistemi e specie selvatiche, in combinazione con quello dei cambiamenti climatici globali, indebolendo gli ecosistemi naturali facilita la diffusione dei patogeni aumentando l’esposizione dell’uomo a tali rischi”. Un recente studio pubblicato su PNAS lo conferma:

“Circa il 70% delle malattie infettive emergenti originano in animali (per la maggior parte in animali selvatici) e la loro emergenza è rintracciabile in una serie di complesse interazioni tra animali selvatici, domestici ed umani. L’emergenza di queste malattie è correlata con la densità di popolazione umana e la diversità degli animali selvatici ed è causata da cambiamenti antropogenici come la deforestazione, l’espansione dell’agricoltura, l’intensificazione dell’allevamento di bestiame e dall’incremento della caccia e del commercio di animali selvatici”

Queste non sono notizie nuove per chi lavora nell’ambito della biodiversità e della protezione degli ecosistemi, ma oggi anche il pubblico più ampio se ne sta rendendo conto. Da anni, ormai, si sa quali sono i principali fattori di “pressione” sugli ecosistemi. Il celebre Global Assessment dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services – che sta alla biodiversità come l’IPCC sta al clima) non ha dubbi nell’affermare che a causare la perdita delle specie e degli ecosistemi vi sono fattori diretti (per esempio, cambiamenti nell’uso della terra e del mare; sfruttamento diretto degli organismi, etc.) ed indiretti (andamento dei processi produttivi e di consumo, aumento della popolazione umana, commercio e altri), tutti, evidentemente, antropogenici. Il modo in cui produciamo il nostro cibo e peschiamo il pesce, il modo in cui espandiamo i nostri centri urbani ed il modo in cui estraiamo le risorse naturali dal suolo sono tutti fattori che determinano la sopravvivenza – o meno – degli ecosistemi globali e sono tutti legati all’attuale pandemia. Fino ad ora, come denunciato dallo stesso report dell’IPBES, non abbiamo fatto abbastanza per salvaguardare il nostro pianeta e “la stragrande maggioranza degli indicatori degli ecosistemi e della biodiversità mostrano un rapido declino”. In altre parole, l’attuale pandemia è una tragedia annunciata già da tempo. Trovare un vaccino per il coronavirus e pensare a come risollevare l’economia globale è di certo auspicabile. Ma altrettanto auspicabile per evitare che crisi di questo genere si ripetano dovrebbe essere la lotta a queste cause, dirette ed indirette, di distruzione degli ecosistemi.

Nonostante pressoché la totalità degli scienziati che lavorano su questi temi siano convinti della urgenza di ridurre le pressioni umane sugli ecosistemi, essi tuttavia non concordano su come farlo. Inoltre, la pressione – o la mancanza di pressione – politica rende l’intero processo ancor più complicato. Circa un mese fa, a Roma, si è tenuto un incontro preparatorio alla Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) delle Nazioni Unite che – a meno di rinvii causa coronavirus – dovrebbe tenersi a ottobre in Cina, a Kunming (COP15). In questo incontro, passato in sordina, la diversità di approcci proposti per la protezione della biodiversità è straordinaria. Alcuni sostengono che solo proteggendo “metà” della terra sarà possibile fermare la perdita della biodiversità. Altri, invece, sostengono che un obiettivo del genere sarebbe troppo ambizioso e suggeriscono un approccio più cauto. Tralasciando i meandri di questo dibattito, il punto è che non esiste, né mai esisterà, una soluzione unica. D’altronde, la natura è un campo di battaglia e non si presta a soluzioni semplici.

Due professori dell’Università di Wageningen (Paesi Bassi), Bram Büscher e Robert Fletcher concordano sull’impossibilità di trovare una soluzione che trovi tutti d’accordo e, a dire il vero, non sembrano affatto cercare un consenso trasversale. Nel loro libro (appena pubblicato per la casa editrice Verso), hanno elaborato un manifesto che, secondo loro, va alle radici – ed è quindi “radicale” – del problema della distruzione degli ecosistemi. Büscher e Fletcher spiegano che l’attuale sistema capitalistico, devoto alla perpetua crescita economica, è la principale causa di pressione sugli ecosistemi. L’idea stessa di un “capitalismo verde” che pone un valore economico e costruisce mercati per la protezione degli ecosistemi non porterà a nulla se non ulteriore distruzione. Infatti, sostengono gli autori, il motivo basilare per cui il sistema capitalistico non è sostenibile è che “trasforma gli esseri umani e la natura in beni per stimolare la crescita economica ad infinitum”. Il capitalismo, in altre parole, si basa sull’alienazione dell’uomo dalla natura e sulla commercializzazione della natura (e di certe parti dell’umanità) ai fini della crescita economica. Fondamentalmente, basandosi sui loro studi di ecologia politica, Büscher e Fletcher sostengono che per rendere la conservazione della biodiversità sostenibile sia necessario un superamento dell’approccio capitalistico e non a caso definiscono il loro libro “Manifesto post-capitalistico”. Qualsiasi approccio alla conservazione che non consideri la natura “capitalistica” del problema fallirebbe a risolverlo. Büscher e Fletcher sono così convinti di questo punto che, secondo loro, proteggere metà della terra, come è stato proposto alla CBD, è inutile – e puro pericoloso – se realizzato senza ripensare il nostro sistema economico e la nostra relazione con la natura.

L’approccio di Büscher e di Fletcher è fortemente politico e si basa su diverse esperienze teoriche – e non solo – tra cui la “decrescita economica”. Questo posizionamento “politico” non è certo esente da critiche e ciò sembra essere particolarmente vero in questi giorni in cui la ripresa economica nel post-COVID 19 è sulla bocca di tutti. Tuttavia, Büscher e Fletcher non fanno altro che indicare una direzione, un possibile luogo dove iniziare la ricerca delle radici della crisi ecologica e climatica. Il dibattito odierno sul coronavirus e sulle emissioni di CO2, benché ci abbia avvertito che la riduzione delle emissioni inquinanti sarà, di fatto, irrisoria, sembra indicare una direzione alquanto simile. In un’intervista rilasciata alla Deutsche Welle sulla relazione tra il coronavirus e il cambiamento climatico, l’economista ecologico Jon Erickson, ha detto infatti che: “Questi momenti indicano chiaramente la stretta relazione tra le emissioni di gas inquinanti e la crescita economica”.

Parlare di ambientalismo ai tempi del coronavirus, insomma, assume un significato critico in quanto richiede di pensare e ricercare le radici dei nostri problemi e le priorità delle nostre società. Questa ricerca non è un mero esercizio teorico poiché da essa dipendono le soluzioni che saremo in grado di elaborare in un futuro. Naomi Klein, su questo punto, sembra avere le idee molto chiare: cosa ne sarà delle lezioni che il COVID19, volenti o nolenti, ci sta insegnando sulla nostra relazione con la natura, dipenderà solo ed esclusivamente da chi ha l’ardire e il coraggio di combattere con più forza per la propria idea. Quindi, in definitiva, se il coronavirus sarà un bene o meno per l’ambiente nel lungo periodo sta a noi e alle idee a cui decidiamo di appartenere.

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