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In questi giorni di isolamento è apparso sempre più evidente un problema che già attanagliava molti utenti della Rete, ma che è diventato preoccupante nel momento in cui la stragrande maggioranza dei contatti sociali si è riversata su uno schermo: il narcisismo da social.

Il termine narcisismo, nel linguaggio comune, è utilizzato per indicare una serie di atteggiamenti o tratti di personalità afferenti alla dimensione dell’egocentrismo.

Ma, vediamo nello specifico di capirne meglio la natura e il ruolo sociale.

Già nel suo celebre saggio sull’argomento, Sigmund Freud ci ricorda che alcuni tratti narcisistici sono presenti sin dalla nascita in ognuno di noi, in particolar modo nei bambini piccoli quando ancora non hanno sviluppato adeguate capacità empatiche. E ci mancherebbe altro!  Un neonato o un infante hanno bisogno di concentrare su di sé tutte le attenzioni per essere accuditi, protetti e supportati. Al crescere delle loro competenze e abilità sociali, iniziano ad accorgersi di non essere al centro del mondo, ma di essere dei nodi in una rete molto estesa. Se tutto va bene, crescendo, rimarrà in loro una piccola dose di narcisismo necessaria a sviluppare amor proprio, senso di efficacia e autostima. Ahimè, a volte qualcosa non funziona…

Anche i più recenti studi sul narcisismo, concordano nel dire che accanto a un narcisismo sano, ne esiste uno evidentemente patologico e sempre più diffuso nella nostra società.

Basti pensare che la definizione di disturbo narcisistico di personalità, ha suscitato ampio dibattito nell’ultima revisione del Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V) poiché, talmente diffuso in alcune società – specialmente in quelle occidentali – stava costringendo le compagnie di assicurazione a elargire fior fiore di rimborsi per le dovute terapie.

A causa di una visione di sé grandiosa, smisuratamente irrealistica, e della costante preoccupazione di essere superato o adombrato dagli altri, il narcisista è sempre esposto al rischio della cocente frustrazione. L’Altro è contemporaneamente colui che può salvarlo (perché lo ammira incondizionatamente) e una mortale minaccia (perché non lo riconosce o lo scredita, o peggio ancora, perché può mostrarsi migliore). È facile capire quindi come questa condizione vada a generare una spirale perversa in cui si alternano grandiosità, frustrazione, depressione e rabbia.

Il narcisista patologico espone dunque sé stesso e l’Altro al costante pericolo della svalutazione quando non addirittura dell’aggressione. Chi si ricorda che a fare le spese dell’egocentrismo del mitologico Narciso fu anche la povera ninfa Eco, condannata alla perdita della propria identità, per divenire semplicemente riflesso dell’amato? (è una domanda retorica; Eco sembra essere sparita anche dalla narrazione dominante, adombrata dal più ingombrante Narciso).

Narciso è una figura disperata che, se guardata senza giudizio, suscita in noi compassione e dolore. Il suo estremo bisogno di essere amato non riesce (non può) essere soddisfatto e lo porterà a morire del “bisogno di sé stesso”.

Chi è Narciso oggi?

Narciso siamo potenzialmente tutti noi, utenti dei social e accumulatori di like spesso privi di volto, il cui numero accresce il nostro ego, talvolta smisuratamente, fino a farci sentire come divinità adorate dai nostri follower all’interno di un cyberspazio che, slegato dal contesto reale, ci induce a sovrastimare la nostra importanza e ad assumere comportamenti egoistici e devianti, che non adotteremmo normalmente in una comunicazione vis à vis . È un’osservazione avanzata da alcune teorie sulla comunicazione risalenti agli anni Ottanta, nel momento dell’entrata in scena dei primi new media, quando ancora social network come Facebook non esistevano, ma già si prospettavano nuove modalità di comunicazione che avrebbero cambiato per sempre il nostro modo di intendere le relazioni con l’Altro e la percezione della nostra identità quando mediata da uno schermo.

Con il passare del tempo e la comparsa sempre più invasiva dei social, sembra che per molti la cyberidentità sia diventata più importante dell’identità reale, come se quello che siamo sui social, il modo in cui appariamo sulle homepage dei nostri amici o seguaci, fosse più importante del contesto sociale al quale apparteniamo.

Possiamo così assistere alla piena realizzazione di quella virtualità reale, per usare le parole del sociologo spagnolo Manuel Castells, tra i massimi studiosi della materia e che per primo è riuscito a riconoscere che il termine di “realtà virtuale” non era adatto a descrivere quello che stava succedendo: non è la realtà ad essere diventata virtuale (anche perché lo è sempre stata), ma è il virtuale a diventare reale nel momento in cui gli viene attribuito statuto di esperienza. È dunque all’interno di questa virtualità reale che costruiamo nuovi significati e valori sociali che prima venivano elaborati altrove e in altre modalità.

Bene, in questi giorni mi capita di vedere foto, post e video di persone che, probabilmente in preda alla solitudine e alla frustrazione causate dalla eccezionale situazione che stiamo tutti vivendo, riversa compulsivamente sui social la propria rabbia, la propria voglia di dire “io esisto”, il proprio desiderio di apparire in una modalità che immagino essere totalmente diversa da quella in cui si vive a “schermo spento” (se mai lo si spegne), presumibilmente triste.

Vere e proprie messe in scena, come se ci si trovasse su un palcoscenico e si dovesse affrontare un discorso alla nazione in cui quello che conta – in questo caso – è l’impatto scenico, il vestiario, l’immagine artefatta e non il contenuto che finisce per passare in secondo piano (per fortuna, in alcuni casi!), appiattito da una imbarazzante rincorsa ai like, in cui vince chi riesce a catturare l’attenzione di quanti più utenti possibili sparandola più grossa.

Capisco che le modalità di comunicazione politica usate negli ultimi anni abbiano spinto alcuni a credere che sia quello il modo giusto di agire per contare qualcosa a livello pubblico. Capisco che la solitudine e la frustrazione possano spingere ad assumere comportamenti bizzarri ed esasperati da una situazione di isolamento. Capisco la voglia di sentirsi in contatto con qualcuno, specialmente se si vive da soli.

Cerco di essere comprensiva, ma ritengo che in alcuni casi si stia davvero superando il limite dell’accettabile e fermarsi, riflettere e fare un passo indietro (o in avanti) probabilmente sarebbe la cosa più saggia da fare.

Se non ci si lascia sovrastare dalla paura, dalla rabbia e da altri sentimenti negativi, situazioni come questa possono rivelarsi occasioni proficue per liberare da dentro di noi quella sana creatività di cui ora abbiamo particolarmente bisogno per immaginare una nuova ripartenza.

Ieri sera mi è capitato di guardare un film consigliatomi da un amico (Un mondo nuovo) sul Manifesto di Ventotene, realizzato da Altiero Spinelli e altri intellettuali e militanti politici, confinati su quell’isola durante la seconda guerra mondiale perché “colpevoli” di antifascismo. Si tratta di un Manifesto che pare sia stato inizialmente scritto sulle cartine di sigaretta (in mancanza di altri supporti) e giunto alla terraferma nascosto nel ventre di un pollo arrosto. Altri tempo, è vero…Ma è altrettanto vero che in uno stato di privazione di libertà, i fautori di un’Europa unita (impensabile in tempi in cui gli Stati-nazione della stessa Europa erano in guerra tra loro) hanno sfruttato quell’unica libertà che rimaneva loro: pensare e impiegare il tempo a disposizione.

Non siamo in guerra, ma forse si può cogliere un parallelismo tra loro e noi, costretti in questi giorni a passare molto tempo in casa, con la noia nascosta dietro a ogni angolo.

Del film mi ha colpito una frase in particolare, tratta da una poesia di Majakowskij (Frammenti), che mi preme condividere soprattutto con quei narcisi da tastiera convinti di poter cambiare il mondo seduti comodamente in poltrona e acclamati da follower altrettanto annoiati.

Non è questo il modo giusto di reagire. Per voi. E anche per gli altri.

Io non conosco la forza delle parole
conosco delle parole il suono a stormo.
Non di quelle
che i palchi applaudono.
A tali parole
le bare si slanciano
per camminare
sui propri
quattro piedi di quercia.

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