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Interno giorno. Sala da pranzo a casa di mia madre. Mi guardo intorno e cerco di distrarmi dall’ansia che mi assale ridendo del fatto che mia mamma sia di fondo un’accumulatrice compulsiva. È una di quelle persone che se le dici che stai pensando di cambiare il mobiletto del bagno, ti chiede di poter vedere quello che vuoi eliminare, perché non si sa mai che sia ancora bello e si intoni con il suo, di bagno; e se anche non si intonasse, se le piace ce lo mette lo stesso.

Torno alla mia ansia: mia madre è arrivata e devo chiederle di sedersi al tavolo con me, devo farle il discorso più importante della mia vita e non so nemmeno da dove iniziare. Le ho pensate davvero tutte, compreso il “Hey mamma, sai, per 25 anni ti ho trollata”, ma poi dovremmo aprire una disquisizione sul significato di trollare, mi direbbe che i troll non scherzerebbero se esistessero, e ne verrebbe fuori che non le direi ciò che le devo dire. E devo farlo per forza perché è mia madre, perché vivo sotto il suo stesso tetto, perché mi sembra che un giorno possa dirmi “Non so più chi sei” se non glielo dico subito.

Ma come si dice ad una madre che ti sei innamorata di una donna, dopo 25 anni da etero incallita? Ancora non lo so, lo scoprirò nei prossimi dieci minuti, perché lei è qui che mi fissa e immagino si aspetti che il mio “mamma, siediti che ti devo parlare” non si riferisca a cosa vorrei mangiare per cena.

Osservo il fumo della mia sigaretta alzarsi e volare via e lo invidio, perché lui si sta dissolvendo, mentre io sono qui, in carme e ossa e non c’è più niente che possa salvarmi. “Mamma senti, non ci sono molti modi per dirtelo o condirla via. Mi sono innamorata di Katia”. Boom! Innescata, lanciata, esplosa.

“Lo sapevo. L’ho sempre saputo”.

Ora mi sembra di avere in mano una di quelle pistole da cui esce la scritta “Bang” quando spari, invece che la bomba che pensavo. Mi sento fin quasi una stupida ad aver pensato che ci fosse bisogno di un discorso ufficiale, di giri di parole o di un discorso ironico che mi desse la possibilità di tergiversare. La conversazione verte poi su altri aspetti. Mia mamma mi sta dicendo che lei è felice così, purché io sia felice così, ma che ci saranno delle persone che forse non saranno pronte, che potrebbero reagire male, ma non mi sta consigliando di non dirlo, di tenerlo nascosto, anche solo per un po’. Me lo dice come mi stesse dicendo che quando fai la spesa poi ti danno lo scontrino, come una cosa scontata, che si conosce, ma a cui potrei non essere preparata. Quello che mi sorprende di più è che non mi ha mai chiesto nemmeno una volta “sei sicura?”. Non che me lo aspettassi da lei perché è lei; semplicemente mi sembra la domanda più scontata da fare in una situazione come questa. Per mia mamma invece no, per mia mamma a questo punto è più importante cosa cucinare, poi spunta dalla cucina e aggiunge solo “A papà lo dico io, tranquilla”. E poi apre il frigo e la nostra vita continua, non c’è nulla che la sorprenda, nulla che la renda dubbiosa; Katia diventa in fretta parte integrante della nostra famiglia, la chiama la quarta figlia, la prende sotto la sua ala, sotto cui mette davvero poche persone, purché le ritenga meritevoli della sua protezione.

Questa è una scena di vita reale, tutto questo è successo davvero, un giorno di febbraio 2012, e da quel giorno sono successe tante cose, alcune belle, altre meno, ma la mia vita è del tutto normale, la mia famiglia lo è, il mio amore per quella che nel frattempo è diventata mia moglie, lo è.

Ma sarei potuta non essere così fortunata, giusto? Sarebbe potuto succedere che mia madre non accettasse così facilmente la mia sessualità, che alcuni definirebbero deviata. Sarei potuta essere figlia di una madre che ritiene la mia omosessualità una malattia, un difetto, qualcosa da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi. Sarei potuta essere figlia di un genitore violento che piuttosto che vedermi vivere liberamente la mia sessualità a suo dire sbagliata, avrebbe preferito massacrarmi di botte, o peggio uccidermi. O magari semplicemente essere mandata via, rifiutata, allontanata dalla mia casa e dall’amore dei miei genitori, e questo “solo” perché non sarei normale, secondo alcuni. Alcuni dei quali sono genitori di figli che non saranno mai ciò che chi li ha messi al mondo si aspetta, desidera, spera.

Ecco, a tutti quei genitori lì vorrei spiegare una cosa, magari inutilmente, ma chissà. Mia mamma è una mamma qualsiasi, una mamma che si è data un gran da fare per crescere tre figlie a cui ha insegnato la tolleranza, il rispetto e l’educazione. È straordinaria solo per l’ironia che ci ha messo in tutto quello che ha fatto, così che sarcasmo e sdrammatizzazione ci salvassero ogni volta che ci sembrava di affogare; ecco perché finito i discorso importante sopra citato, ha semplicemente aperto il frigo e cucinare la cena è diventata la preoccupazione prima e di chi mi fossi innamorata l’ultima. Mia mamma non ha fatto altro che la mamma, in quella situazione.

Care mamme, che avete paura di non conoscere vostro figlio, che pensate che le persone possano giudicarlo o giudicarvi, che pensate che la legge di dio, o chi per esso, sia più importante dell’amore che provate in modo del tutto naturale per quella persona che è vostro figlio, che credete che quella parola che definisce la sessualità di chi avete messo al mondo definisca anche la sua personalità, per favore mamme, smettetela subito.

Noi figli siamo in parte chi ci avete insegnato ad essere; noi figli restiamo persone anche se vi diciamo che siamo gay. Noi figli non pretendiamo che voi ci difendiate ad ogni costo, perché poi siamo più forti di quel che credete, altrimenti a dirvelo non ci saremmo arrivati mai. Ci basta sapere che ci siete, essere sicuri che la sera, qualsiasi cosa accada, torniamo dalla nostra mamma e dal nostro papà, a cui poter raccontare la nostra giornata, che magari è stata pessima perché quel collega proprio non manda giù che io sia omosessuale, nonostante non intacchi minimamente la sua libertà.

Mamme, papà, non è una cosa che i vostri figli hanno scelto, non è un virus, non è una malattia psichiatrica da curare e non è nemmeno un modo per attirare l’attenzione. È solo che siamo questi, pur restando i figli che voi conoscete.

Interno lavanderia a gettoni. Una cara signora attacca bottone e scambiamo due chiacchiere sulla comodità di queste lavanderie e sul tempo che non si sa mai cosa vuol fare. Sono sola, cazzeggio con il telefono, poi arriva lei, mia moglie, la mia bellissima moglie, che ha deciso di passare a salutarmi prima di andare a casa, quando rientra dal lavoro. Non ci baciamo, non ci scambiamo evidenti effusioni, se non una carezza sui capelli. La signora ammutolisce, non mi parla più, ci guarda con la coda dell’occhio e fa strane espressioni con il viso. Mia moglie se ne va e la signora continua a non parlarmi; la vedo in difficoltà nel piegare le lenzuola che sta ritirando e le chiedo se voglia aiuto ma rifiuta con un secco no. La situazione non mi infastidisce, io non ho nulla di cui giustificarmi con una sconosciuta.

La domanda che mi pongo è: e se questa cara signora avesse un figlio?

Ecco, mamme. Smettete di credere alla legge di dio, ai politicanti e ai politici, ai difensori della famiglia tradizionale e i difensori dei bambini. Credete a noi figli mamme, credete alla nostra sincerità, credete ai nostri occhi, che magari quella della lavanderia incrociava uno dei vostri di figli, e non tutti sono teste di cazzo come me che mi interesso ben poco di quello che pensano gli altri.

Magari vostro figlio ne avrebbe sofferto e magari avrebbe voluto raccontarlo a sua mamma. Io alla mia non l’ho detto, perché è lei che mi ha insegnato a disinteressarmi delle cose non importanti.

 

Vali

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