Trasformare una pausa forzata in una pausa di riflessione. Continuiamo a provarci con una seconda catena di parole che vengono digitate alla tastiera del computer senza troppo pensarci. Questa volta io e Nero di Seppia – il quale ultimamente sta trascorrendo le sue giornate in mutande tra il divano e la cucina in cerca di stimoli per nuovi scatti casalinghi – chiediamo il contributo di Medusa, pensatrice a tempo pieno, ricollegandoci così all’ultima chain reaction in cui abbiamo coinvolto altri filosofi più o meno noti.
Tutti e tre abbiamo il desiderio di colmare il vuoto che sentiamo fin dentro alle viscere, un languore che alle ore più improbabili del giorno ci spinge ai fornelli per dare libero sfogo alla nostra energia repressa, partire dagli ingredienti di base per combinarli e trasformarli in qualcosa di buono. In fondo, è un modo come un altro per passare dalla riflessione all’azione. Oppure un espediente per placare i pensieri che si susseguono disordinati in questi giorni di reclusione. O ancora, un modo di reagire all’ansia, sorella dell’incertezza.
E’ tutta una questione di prospettive che, a seconda del modo di riflettere, agire e reagire possono aprire o chiudere una serie di possibilità che in questo momento ci vengono offerte, nonostante tutto.
E’ aperta la possibilità di sperare, come per quei temerari che continuano a proporre musica dai loro balconi alle ore 18 anche se la maggior parte delle persone si era già stufata dell’idea al decimo giorno di quarantena, una volta passato il brivido della novità. Ma cosa possono fare i musicisti se non continuare a suonare? E’ la loro missione. The show must go on. Anche se a casa si ha solo il violino scassato del cognato del cugino del tuo bisnonno risalente ai primi anni del secolo scorso.
Anche io da bambina ero convinta di voler diventare musicista, anche se poi le cose sono andate diversamente e oggi una chiave di sol tatuata sulla schiena mi ricorda che avrei potuto, anche se non è stato. Allora andavo a scuola e avevo l’abitudine di riempire interi quaderni con storielle che prendevano vita nella mia mente riga dopo riga, colori in forma di parole, scarabocchi della mia fantasia.
Ancora adesso per riordinare le idee mi metto a scrivere, anche se crescendo faccio sempre più fatica ad inventare e immaginare mondi paralleli possibili e impossibili. A volte, come nei fumetti, mi si accende una lampadina e allora mi metto a cercare tra la polvere, come quei bambini che scoprono il fantastico mondo delle soffitte, iniziano ad aprire vecchi bauli di legno e ad armeggiare con chiavistelli arrugginiti di porte segrete che li condurranno in mondi fantastici e inaspettati. Prima di giungere alla mèta finale, però, dovranno percorrere labirinti tortuosi di alte siepi, sperando che il loro istinto sia un fedele filo conduttore verso il traguardo. Lungo il tragitto proveranno paura e proprio in quel momento, nella loro stessa ombra, avranno per la prima volta il coraggio di guardare negli occhi il proprio alter ego, quell’altro sé tenuto a tacere per tutto il tempo, ma che talvolta scalpita per uscire e ci si presenta in sogno, ricordandoci qual è il nostro vero carattere, di che pasta siamo fatti. E’ come una fiamma che si accende nel buio della notte, che ci scalda come un morbido piumone durante il sonno di inverni gelidi, nel silenzio di una città addormentata. Alcuni la chiamerebbero presa di consapevolezza di sé.
A volte, ma purtroppo sempre più raramente, questo capita anche agli adulti.
Alla presa di consapevolezza, che da individuale diventa collettiva, può seguire una protesta, per esempio di fronte a una richiesta sociale d’aiuto ritenuta lecita e giusta, ma ripetutamente negata per via di quell’egoismo imperante nel nostro piccolo mondo, al tempo stesso causa e conseguenza dell’annullamento costante di ciò che una volta chiamavamo “cooperazione”, “spirito di collaborazione”, “comunità”, oggi calpestato dai loschi interessi individuali dei pochi che governano sui molti. Ci si sente come sul fondo di una strada asfaltata il 15 di agosto sotto un sole cocente, dove prima c’era un terreno fertile e ora il bitume fa pian piano scomparire tutto. Tutto diventa nero.
Si prova a resistere con la fantasia, immaginando di essere dei pesci o dei sub che nuotano liberi in un immenso mare blu, a cui si accede con un piccolo passo che separa la sabbia di chi vuole tenere i piedi ben saldi a terra, dall’oceano sconfinato dei sognatori. I sognatori…Sono un po’ come le stelle marine che, se lasciate per troppo tempo fuori dall’acqua, possono morire per embolia. Sotto la superficie dell’acqua c’è un mondo tutto ancora da scoprire…
“Com’è profondo il mare” cantava Lucio Dalla dalla sua Bologna, città di torri e portici dove, fino a qualche settimana fa si poteva mangiare un bel panino alla mortazza o un gelato al pistacchio nella Piazza Grande, ora rimasta vuota.
Parlando di pistacchi mi torna alla mente il mio amico Jorge che ricorreva spesso a questa immagine per riferirsi all’apparato genitale femminile… Come direbbe lui, da buon madrileño, “Que risa!”. A quei tempi condividevamo una graziosa casetta alla periferia di Dublino e ogni sera trovavamo il pretesto per fare festa, anche se i vicini non apprezzavano troppo il nostro “spirito latino”. Ma a noi non importava, quella era la nostra estate, ognuno era giunto lì per sfuggire a qualche problema ed ora, spazio allo svago, a ridere fino allo sfinimento. Era come se si fosse amici da sempre. Così succede quando vivi all’estero e non hai nessuno su cui fare affidamento. Si diventa “hermanos” nel giro di una serata trascorsa a tracannare pinte di birra al pub, a reggersi a vicenda nel lunghissimo tragitto fino a casa, scansando ubriaconi stesi sui marciapiedi. E’ lì che si vedono gli amici, nel momento del bisogno, quando sono costretti a sollevare il tuo dolce peso per metterti a letto.
Per me gli amici sono i migliori compagni d’avventura che si possano desiderare, anche se mi rendo conto che poi ognuno ha le proprie misure per giudicare chi è amico. Affetto, simpatia, stima reciproca…Boh, per qualche motivo ce li siamo scelti!
Quando penso ai miei amici, soprattutto a certi amici, mi è impossibile non pensare alla parola “compagna” o “compagno”, che unisce con forza nei momenti di avversità.
L’altra sera, guardando la TV, mi è capitato di vedere il pezzo di un’intervista a Rossana Rossanda:
“Compagno è una bella parola ed è un bel rapporto quello fra compagni. ‘Amici’ è una cosa più interiore, ‘compagni’ è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può anche non essere amici ma si conviene di lavorare assieme”.
Ecco. Forse questo è il momento in cui dovremmo riconsiderare il nostro essere compagni.
Dalla catena:
PAUSA-RIFLESSIONE-FILOSOFIA-DESIDERIO-LANGUORE-VUOTO-CAMBIAMENTO-AZIONE-REAZIONE-PROSPETTIVE-POSSIBILITA’-SPERANZA-MUSICA-VIOLINO-CHIAVE DI SOL-SCUOLA-QUADERNO-COLORI-SCARABOCCHIO-IDEE-LAMPADINA-POLVERE-SOFFITTA-BAULI-LEGNO-CHIAVISTELLO-PORTA-SEGRETO-LABIRINTO-SIEPI-FILO-OMBRA-ALTER EGO-CARATTERE-FIAMMA-CALORE-SONNO-SILENZIO-CONSAPEVOLEZZA-PROTESTA-RICHIESTA-AIUTO-NEGATO-EGOSIMO-ANNULLAMENTO-ASFALTO-15 DI AGOSTO-NUOTARE-BLU-PROFONDITA’-SUB-SABBIA-STELLE MARINE-LUCIO DALLA-BOLOGNA-PORTICO-GELATO-MORTAZZA-PISTACCHIO-JORGE-FESTA-SVAGO-AMICI-BISOGNO-SOLLEVARE-PESI-ALTRE MISURE-STIMA-RECIPROCA-COMPAGNI-UNIONE-FORZA